domenica 8 maggio 2016

Cittadini senza politica e politica senza cittadini. Verso una democrazia immediata? Un dibattito con Valentina Pazé, Luciano Fasano, Nicola Pasini e Damiano Palano. Milano, lunedì 9 maggio 2016, ore 14.40




Lunedì 9 maggio 2016, ore 14.30-16.30

Cittadini senza politica e politica senza cittadini. 
Verso una democrazia immediata?

Presentazione del volume di Valentina Pazé 
Ega – Gruppo Abele, Torino, 2016.

Partecipano: 
Luciano Fasano (Università degli Studi di Milano) 
Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore) Nicola Pasini (Università degli Studi di Milano) 
Valentina Pazé (Università di Torino)

Università Cattolica
AULA NI 110
VIA NIRONE 15
20123 MILANO



Valentina Pazé è Ricercatrice di Filosofia politica presso l’Università di Torino. Si è occupata, in una prospettiva teorica e storica, di comunitarismo, multiculturalismo, teorie dei diritti e della democrazia. Tra le sue pubblicazioni: Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea (Laterza, 2002); Comunitarismo (Laterza, 2004); In nome del popolo. Il problema democratico (Laterza, 2011). Per Edizioni Gruppo Abele ha curato con M. Bovero Diritti e poteri (2013).




venerdì 29 aprile 2016

La legittimità difficile nella tarda democrazia. Una discussione sul volume "Gemina persona" di Paolo Costa, con Damiano Palano e Filippo Pizzolato, lunedì 2 maggio, ore 14.30




La legittimità difficile nella tarda democrazia

Una discussione a partire da
Paolo Costa 
Gemina persona. Un’ipotesi giuspubblicistica intorno alla crisi del soggetto politico 
(Giuffrè, Milano, 2015).



Partecipano: 

Filippo Pizzolato (Università Bicocca – Università Cattolica del Sacro Cuore)
Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore)
Paolo Costa (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Lunedì 2 maggio 2016
ore 14.30-16.30
Aula G.003 Bausola
Università Cattolica
Largo Gemelli, 1


Milano

martedì 26 aprile 2016

L’ortopedia del «vincolo esterno». Un libro di Emidio Diodato sulla de-democratizzazione italiana dopo Maastricht




di Damiano Palano


Nel 1977 Guido Carli – che allora ricopriva la carica di Presidente di Confindustria, dopo essere stato dal ’60 al ’75 governatore della Banca d’Italia – rilasciò a Eugenio Scalfari una lunga intervista, nella quale esponeva la propria lettura del ‘caso italiano’ e della crisi in cui versava allora il paese. L’interpretazione che svolgeva Carli non era in fondo molto originale, perché individuava alla base della crisi economica un progressivo deterioramento dello «spirito imprenditoriale», un processo innescato inizialmente dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica e dagli effetti negativi del credito agevolato, ma poi condotto a termine dalle mobilitazioni sindacali della fine degli anni Sessanta. Come sintetizzava nitidamente lo stesso Carli: «dal ’69 in poi questo processo di distruzione vera e propria dello spirito imprenditoriale ha registrato un’accelerazione senza confronti col passato. Lo Statuto dei lavoratori e la rigidità della forza-lavoro: sono stati questi i due momenti fondamentali del deterioramento della situazione. Con essi siamo arrivati al culmine della disgregazione del sistema» (G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Roma – Bari, 1977, p. 113). 
Se queste dinamiche, secondo Carli, avevano fatto precipitare la situazione dell’economia italiana, l’ex-governatore dalla Banca d’Italia ritrovava però anche una contraddizione di fondo nelle scelte compiute dalla classe politica italiana: una contraddizione che scaturiva, da un lato, dalla decisione adottata alla fine degli anni Cinquanta di aderire alla Comunità Europea, e, dall’altro, dal permanere di una diffidenza, se non di una vera e propria ostilità, nei confronti della logica dell’economia di mercato. In altre parole, secondo Carli la classe politica italiana non si era resa conto, al momento dell’adesione alla Cee, di cosa quella decisione avrebbe comportato, e in special modo non si era resa conto che – laddove non fosse intervenuto un adeguamento delle strutture del paese – l’economia nazionale non sarebbe stata in grado di affrontare la competizione degli altri partner europei. In questo senso Carli osservava, dinanzi all’allora direttore di «Repubblica»: «Fu un errore non rendersi conto delle conseguenze che quell’adesione avrebbe avuto e dei mutamenti che essa obbligatoriamente comportava. Mi sembra insomma che all’origine della nostra crisi vi sia una profonda contraddizione tra l’aver ‘affondato’ l’economia italiana nel sistema dell’economia di mercato dominante in tutt’Europa e, nello stesso tempo, l’aver conservato o addirittura accresciuto un atteggiamento di ostilità verso l’economia di mercato e verso i meccanismi che vi presiedono» (p. 65).
Carli naturalmente non era affatto contrario all’adesione alla Cee, di cui era stato anzi a suo tempo uno strenuo sostenitore e della cui opportunità continuava a essere fermamente convinto anche negli anni Settanta. Ciò di cui si rammaricava era invece la miopia della classe politica italiana, una miopia che scaturiva a suo avviso proprio dall’ostilità ‘culturale’ nei confronti del ruolo imprenditoriale da parte non solo del mondo sindacale e della sinistra, ma da parte anche di una porzione consistente del mondo democristiano. Ad avviso di Carli, non si trattava inoltre di elementi congiunturali, legati a quel periodo specifico, perché erano atteggiamenti profondamente radicati nella società italiana e molto difficili da scardinare o modificare. Proprio per questo dall’Intervista sul capitalismo italiano emergeva un marcato pessimismo, che certo non precludeva l’individuazione di qualche spazio d’azione, ma che d’altro canto appariva molto lontano dal prefigurare margini di ripresa. 
Nonostante le cupe previsioni di Carli, l’economia italiana iniziò di lì a qualche anno a mostrare segni rilevanti di ripresa, tanto che gli anni Ottanta – a torto o a ragione – sono ancora oggi ricordati da molti come una sorta di perduta «età dell’oro». Che quella crescita, per quanto favorita anche dall’esplosione del made in Italy, fosse in misura non marginale legata anche a quell’espansione del debito pubblico di cui ancora oggi ci troviamo a pagare le conseguenze, era però ben chiaro a Carli. Anche per questo non abbandonò neppure nel corso degli anni Ottanta la propria diffidenza nei confronti della classe politica italiana, giudicata inadeguata a gestire un paese sottoposto a crescenti pressioni internazionali. E così – prima ancora che esplodesse la crisi della cosiddetta «Prima Repubblica» – ricercò le condizioni per introdurre nel sistema italiano una sorta di riforma ‘invisibile’, capace di costringere gli attori politici a rispettare, persino contro la loro stessa volontà, la disciplina dei conti pubblici e i principi dell’economia di mercato. Più specificamente Carli – che fu Ministro del Tesoro nell’ultimo governo Andreotti, al principio degli anni Novanta – individuò nel negoziato europeo che avrebbe condotto alla firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio 1992, l’opportunità per imporre al sistema italiano quello che più tardi, nelle sue memorie, l’ex-governatore definì un «vincolo esterno»: «La nostra scelta del ‘vincolo esterno’», si legge infatti nelle sue memorie postume, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di politica italiana, in collaborazione con Paolo Peluffo, Laterza, Roma – Bari, 1993, p. 267). Naturalmente la classe politica – che già non aveva intuito quali fossero le implicazione dell’adesione alla Comunità Europea – non comprese neppure quali sarebbero state le conseguenze di Maastricht, e in particolare – come lo stesso Carli non mancava di osservare – non si rese conto che, sottoscrivendo i vincoli fissati dal Trattato, accettava di fatto «un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne» (ibi, p. 437).
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalle trattative che condussero a Maastricht, ci appare del tutto chiaro come il «vincolo esterno» abbia pesato sulla politica italiana molto più di ogni altro aspetto, tanto che persino l’intera parabola del bipolarismo della «Seconda Repubblica» può essere considerata come un tentativo – più o meno riuscito – di rispettare (o aggirare) quel vincolo. E proprio per questo è davvero importante il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, pp. 172, euro 15.00), un testo che non si sofferma solo sul presente e sul passato recente, ma si spinge anche all’indietro, per meglio comprendere le radici di un processo che giunge a manifestarsi compiutamente solo al principio del XXI secolo. Il libro di Diodato, politologo dell’Università per Stranieri di Perugia, non è infatti solo dedicato alla politica italiana della «Seconda Repubblica», perché – adottando una prospettiva davvero fruttuosa, e assai poco praticata in Italia – tenta anche di cogliere l’interazione fra la dimensione interna e quella internazionale. Da questo punto di vista, Diodato richiama infatti la vecchia (ma spesso dimenticata) lezione di Otto Hintze, secondo cui il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisce il riflesso – ovviamente non automatico – delle trasformazioni del sistema internazionale. E, inoltre, ricostruisce la relazione problematica fra lo Stato e la democrazia in Italia, evidenziando la portata dei due «vincoli esterni» che, prima di quello di Maastricht, ‘ancorarono’ il sistema: l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale, e l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979. Ma ovviamente l’analisi è proiettata soprattutto sul terzo «vincolo esterno», rappresentato da Maastricht. E proprio riesaminando il significato che tale vincolo ha avuto per la politica italiana dell’ultimo ventennio, Diodato viene a sviluppare un’analisi preziosa, che riesce a cogliere la connessione fra alcune dinamiche interne e un processo che vede modificarsi il ruolo internazionale dell’Italia.
Ci sono in particolare tre nodi su cui Diodato si concentra, e su cui vale la pena soffermarsi. Un primo aspetto è rappresentato dalla sostanziale impreparazione cui la classe politica italiana della «Prima Repubblica» giunse all’appuntamento europeo di Maastricht. Con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia si trovarono in gran parte spiazzate da un quadro radicalmente nuovo. Il primo episodio in cui emersero le difficoltà fu senza dubbio la Guerra del Golfo del 1991, perché l’opposizione di Arafat all’intervento internazionale contro l’Iraq di Saddam Hussein mise in crisi il ruolo che l’Italia aveva assunto nello scacchiere mediterraneo, incrinando così l’immagine di «media potenza regionale» cui la classe politica del Belpaese aveva lavorato per decenni. Anzi i tentativi di nuovo attivismo sperimentati negli anni Ottanta – nel quadro della ‘nuova guerra fredda’ di Ronald Reagan – si rivelarono, dalla prospettiva del 1989, come «uno sforzo tutto sommato improduttivo e anzi dannoso per il paese», perché «non predispose di certo l’Italia ad affrontare l’appuntamento, molto più impegnativo, di Maastricht» (p. 91). L’assenza di una politica estera adeguata al passaggio in atto doveva invece aprire uno spazio di manovra alternativo, e in questo spazio venne a inserirsi proprio l’iniziativa di Carli, il quale comprese come nel nuovo scenario, successivo alla dissoluzione del blocco sovietico, le priorità della politica estera mutassero radicalmente, perché in particolare la riunificazione tedesca configurava un fattore di nuova instabilità. La conclusione del Trattato di Maastricht avvenne così anche sull’onda della riunificazione tedesca, e la sua architettura fu concepita – certo paradossalmente, giudicando come poi si sono snodate le vicende dell’Ue – come uno strumento con cui gli altri partner europei cercarono di vincolare la nuova Germania unita. Come scrive Diodato in questo senso: «La preoccupazione per il rafforzarsi sul continente di una nazione capace di sovrastare le altre spinse il governo italiano a sostenere con grande fiducia il mantenimento del Patto atlantico e, allo stesso, tempo, a procedere con forza verso l’unificazione politica oltre che monetaria dell’Europa. Si ritenne, infatti, che solo entro un’Europa più unita, ma difesa dal Patto atlantico, sarebbe stato possibile proseguire l’integrazione del continente senza che una nazione (cioè la Germania) prevalesse sulle altre. Tuttavia, questa posizione fu più una scommessa sul futuro che una ponderata scelta diplomatica» (p. 94). Il vincolo che da quel momento avrebbe pesato sull’Italia si è tradotto, nota anche Diodato, in un fardello sempre più gravoso: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (p. 103). Più in generale, dunque, il vincolo esterno – da potenziale risorsa – si è tramutato (forse definitivamente) in un peso insostenibile: «i vincoli esterni possono essere considerati salvifici nella misura in cui indicano una via (ragionevolmente univoca) di sviluppo moderno, e quindi sono gestiti o governati mediante una politica estera capace di trasformare le preferenze in potere nazionale. Altrimenti rischiano di paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la riabilitazione ortopedico-monetaria e la rieducazione all’austerità economica non funzionano» (p. 133).
Un secondo nodo su cui Diodato si sofferma è invece costituito proprio dal «berlusconismo», ed è a questo proposito che si impegna in una discussione dell’interpretazione proposta da Giovanni Orsina, secondo il quale Silvio Berlusconi è stato – nell’intera vicenda unitaria – l’unico leader che non si sia proposto di ‘correggere’ gli italiani, mediante soluzioni ortopediche e pedagogiche. In realtà Diodato non concorda con l’interpretazione di Orsina, soprattutto perché tale lettura non considera in alcun modo l’insieme delle pressioni provenienti dall’esterno e dunque il peso del «vincolo esterno». A proposito della lettura avanzata dallo storico, Diodato osserva infatti che essa «non considera la realtà istituzionale dello Stato, quindi le condizioni politiche di esistenza della comunità nazionale e le relazioni internazionali che influenzano la direzione e il carattere delle istituzioni»: quella proposta da Orsina, dunque, è «una spiegazione tutta ripiegata all’interno del paese che esclude ogni riferimento al contesto esterno» (p. 147). Nelle pagine dello stesso Orsina, Diodato però scorge anche le tracce che conducono verso un’altra proposta, che in questo caso considera la parabola e le trasformazioni del «berlusconismo» proprio alla luce delle trasformazioni del quadro internazionale. Se il primo governo presieduto dall’imprenditore vede positivamente la globalizzazione e considera sufficiente ‘liberare’ le risorse presenti nella società italiana eliminando ‘lacci e lacciuoli’, il secondo governo Berlusconi – a partire dal 2001 – deve invece modificare la propria prospettiva, ricercando proprio nella politica (e in special modo nella politica estera) lo strumento grazie al quale legittimare la reazione al vincolo europeo. Naturalmente questi tentativi si risolvono in un fallimento e la caduta del quarto governo Berlusconi, nel novembre 2011, sancisce in modo inequivocabile la conclusione della parabola politica dell’imprenditore milanese, oltre che, al tempo stesso, la sconfitta del proposito di rovesciare il vincolo esterno.
Il terzo nodo su cui l’analisi di Diodato si sofferma è probabilmente quello più significativo, perché riguarda il nesso fra il vincolo esterno e il processo di «de-democratizzazione» del sistema politico italiano. Ma Diodato da questo punto di vista non evoca complotti o minoranze che operano nell’ombra per depotenziare gli istituti della democrazia parlamentare. Piuttosto, attira l’attenzione su ciò che è avvenuto in Italia, e su ciò che non ha consentito di tramutare il vincolo esterno in una risorsa. «Se vi è stato un processo di de-democratizzazione», osserva per esempio, «questo non è imputabile alla rottura di un vincolo interno, ossia del legame fra opinione pubblica e politica estera», bensì «all’indebolirsi del potere nazionale, o, meglio, della capacità e forse della volontà dei decisori politici di trasformare i vincoli internazionali in opportunità per il paese, quindi le preferenze nazionali in azioni di politica estera» (pp. 138-139). E in questo senso il politologo finisce con l’assolvere quel decadimento della comunicazione politica cui è spesso stata attribuita in Italia la responsabilità della degenerazione della dinamica democratica: «Inseguendo il fantasma del berlusconismo, troppo spesso in Italia si è parlato di crisi della democrazia come diretta conseguenza delle degenerazione della comunicazione. Naturalmente ciò è stato imputato alla capacità d Berlusconi di controllare la comunicazione grazie al possesso di televisioni e giornali. Ma si dimentica, in questa critica, che l’insoddisfazione nei confronti della democrazia italiana è esistita sin dalla nascita della Repubblica» (p. 141). Per Diodato, invece, la vera spiegazione di quanto avvenuto in Italia nell’ultimo ventennio – e anche della polarizzazione fra centro-destra e centro-sinistra – va rinvenuta nel quadro internazionale e naturalmente nelle implicazioni del vincolo esterno. «Piuttosto che discutere di Maastricht e della sua moneta unica», osserva infatti, «le forze politiche e anche quelle intellettuali (teologi e parroci) hanno cercato la risposta ai problemi del paese discutendo, come fanno i contendenti di un derby politico, la superiorità del berlusconismo o dell’antiberslusconismo» (p. 141). Ma in questo modo si è fatalmente sottovalutato il fatto che proprio a Maastricht furono scritte le pagine più importanti di quella che sarebbe diventata, qualche anno dopo, la «Seconda Repubblica»: «L’ascesa e poi il declino del berlusconismo hanno avuto origine proprio in questa sottovalutazione. La decisione presa a Maastricht non fu quella di operare un trapianto, bensì di eseguire un più efficace intervento ortopedico-monetario, accompagnato da un forte sostegno pedagogico tutt’altro che approssimativo» (p. 142).
Ciò che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni è stato davvero l’esito delle decisioni di Maastricht. E per quanto le conseguenze di quelle decisioni si siano rivelate molto diverse da quelle in cui confidavano gli estensori del trattato, era ben chiaro fin da allora – forse non alla classe politica italiana, ma sicuramente all’allora Ministro del Tesoro – che cosa avrebbe significato il «vincolo esterno». Se infatti la forma politica dell’Unione Europea è un unicum, che non ha eguali nella storia, è anche piuttosto chiaro che la struttura che ha assunto l’edificio europeo a partire dagli anni Novanta è il risultato di una ben precisa volontà: non soltanto della volontà di procedere nel senso dell’unificazione ‘nonostante’ i popoli, e cioè a dispetto delle resistenze dei singoli elettorati nazionali; ma soprattutto della volontà di ‘de-democratizzare’ i sistemi politici europei, ossia di sottrarre alcune decisioni – principalmente di carattere economico – all’influenza degli elettorati nazionali e dunque alla stessa autonomia delle singole classi politiche. Ciò non ha semplicemente a che vedere con la rinuncia alla sovranità da parte degli Stati nazionali, ma piuttosto appare connesso alle modalità con cui il trasferimento di alcuni poteri a livello sovranazionale si è verificato, soprattutto nel passaggio cruciale che conduce a Maastricht. Il punto è che nella costruzione europea la dimensione della legittimazione ‘verticale’, ossia la legittimazione proveniente dal ‘basso’, dagli elettorati, è stata di fatto sempre sostituita da un meccanismo di prevalente legittimazione ‘orizzontale’: un meccanismo in cui i singoli governi nazionali vengono legittimati dagli altri partner in virtù del rispetto degli accordi assunti collegialmente. Questo sistema di legittimazione scaturisce dalla stessa originaria natura di organizzazione internazionale della Comunità europea, nella quale la dimensione intergovernativa è inevitabilmente prevalente su qualsiasi dimensione che chiami in causa le singole opinioni pubbliche. Con la progressiva trasformazione della Comunità in un’Unione tendenzialmente ‘federale’, a questa dimensione doveva affiancarsi un ruolo più significativo del Parlamento europeo: tale processo, nonostante l’allargamento delle competenze dell’assemblea, non ha però mai realmente indebolito la logica intergovernativa. Il punto, così, è che proprio una simile logica viene a offrire una formidabile soluzione per raggiungere determinati obiettivi ‘neutralizzando’ le resistenze interne. Come osserva Diodato, la tendenza conduce, più che a uno sgretolamento dell’autorità statale, verso «l’emergere di una autorità invisibile, per quanto non meno efficace nel controllo delle società» (p. 102). Come sottolinea chiaramente Diodato, se forse la classe politica italiana del tempo non comprese fino in fondo la portata della decisione, essa era invece ben chiara a Carli, per cui la via dell’Ue era la stessa che conduceva allo «Stato minimo»: «Solo riducendo la sovranità democratica, l’unione monetaria di Maastricht avrebbe potuto vincolare i paesi europei, e soprattutto l’Italia a performance politiche idonee alla competizione globale. […] Maastricht fu quindi una scelta politica, prima che tecnica ed economica, e il Trattato sulla stabilità del 2 marzo 2012 ne ha dato piena conferma» (pp. 102-103).
Nel testo sono molte le riflessioni che richiederebbero un approfondimento. Ma l’aspetto che rende interessante il discorso di Diodato è soprattutto il rovesciamento di una tendenza interpretativa che nel corso degli ultimi dieci anni ha ricondotto la ‘crisi’, il ‘logoramento’ e la ‘decadenza’ della democrazia italiana a quel fenomeno – al tempo stesso politico, economico e culturale – che è stato spesso definito «berlusconismo». Certo ci possono essere pochi dubbi sul fatto che l’ascesa politica di un magnate dell’industria televisiva abbia rappresentato un’anomalia nell’ambito delle democrazie occidentali e sul fatto che la concentrazione di potere economico e politico abbia prodotto ben pochi effetti benefici sulla vitalità delle istituzioni. Ciò nondimeno è davvero molto probabile che le analisi che hanno considerato il «berlusconismo» come la causa della ‘crisi’ democratica – e tra queste analisi importanti e talvolta anche preziose – abbiano quantomeno peccato di ‘provincialismo’, nella misura in cui hanno evitato di confrontarsi col quadro internazionale: e cioè non solo sottovalutando la transizione geopolitica, ma anche trascurando quelle trasformazioni interne che diventano comprensibili (come suggeriva Hintze) solo tenendo conto delle pressioni esterne. Ed è invece proprio perché si concentra su questo nesso fra ‘interno’ ed ‘esterno’ che l’analisi di Diodato viene a fornire indicazioni (anche metodologicamente) importanti, meritevoli di un esame ponderato e di ulteriori verifiche. 
Oltre a offrire delle sollecitazioni fondamentali per individuare la corretta prospettiva da cui indagare il processo di «de-democratizzazione» del sistema politico italiano,  il quadro delineato da Diodato consente anche di sottolineare due elementi rilevanti ai fini di un ripensamento della «Seconda Repubblica» e della crisi – politica, economica e sociale – che l’Italia sta vivendo oggi (e che probabilmente continuerà a vivere nel prossimo futuro). In primo luogo, l’esame compiuto dal politologo consente di smantellare alle radici l’idea che il vincolo europeo sia imputabile ad attori esterni, siano essi la «tecnocrazia» di Bruxelles o la Germania di Angela Merkel. Benché infatti l’evocazione di questi ‘nemici’ torni spesso nella retorica di vecchi e nuovi critici dell’Europa e dell’euro, deve essere ben chiaro che l’assetto odierno dell’Unione – un assetto che certo ha prodotto vantaggi in termini relativi per l’economia tedesca, e che inoltre assegna realmente un ruolo significativo alla burocrazia di Bruxelles – è l’effetto di decisioni prese dai singoli governi nazionali, tra cui ovviamente si trovavano gli stessi esecutivi italiani (i quali anzi furono a lungo i più europeisti del Vecchio continente). In secondo luogo, la ricostruzione compiuta da Diodato suggerisce di considerare Maastricht in una nuova luce: se forse gli effetti che avrebbe prodotto il Trattato furono sottovalutati da una classe politica ‘distratta’, spiazzata dal mutamento epocale del 1989 e ormai prossima al proprio capolinea storico, essi furono invece ben chiari fin dal principio a personaggi come Carli, cui non casualmente Diodato assegna in qualche modo il ruolo, se forse non proprio di ‘artefice’, comunque di ideologo del nuovo «vincolo esterno» europeo. In qualche misura, infatti, il Trattato di Maastricht e i famigerati parametri che oggi vengono da più parti liquidati come insensati e perniciosi furono consapevolmente perseguiti e appoggiati da una componente (forse minoritaria ma non irrilevante) della classe dirigente italiana, rappresentata proprio da Carli, che vide in quella cornice il «vincolo esterno» capace di ‘disciplinare’ tanto la società italiana quanto una classe politica ‘culturalmente’ ostile ai principi dell’economia di mercato. In sostanza – e da questo punto di vista è sufficiente rileggere le memorie di Carli – Maastricht fu percepito come quello strumento con cui ‘sterilizzare’ la democrazia italiana, sottraendo alla classe politica nazionale (e dunque, indirettamente, agli stessi elettori), una serie di decisioni cruciali in campo economico. Ma, soprattutto, fu concepito come lo strumento con cui poter finalmente risolvere quella grande contraddizione che si era aperta nel 1957, e di cui Carli aveva esposto la gravità già nella sua vecchia intervista a Scalfari sul finire degli anni Settanta. Se allora l’Italia aveva aderito alla Cee conservando però la propria diffidenza per le regole della competizione economica, Maastricht offriva finalmente lo strumento con cui ‘educare’ gli italiani e la classe politica del Belpaese alla ‘cultura’ del capitalismo. E, dunque, l’unificazione monetaria rappresentava agli occhi di Carli quella strada che avrebbe definitivamente ‘costretto’ l’Italia a essere ‘virtuosa’, uscendo così dalle secche in cui – secondo la lettura dell’ex governatore della Banca d’Italia – si era arenata a partire dal 1969.
Il lavoro di Diodato consente oggi di comprendere come quella scelta, che certo fu anche il prodotto di una serie di circostanze contingenti, scaturisse da una visione complessiva, che ovviamente trovava nella garanzia offerta dal «vincolo esterno» il tassello cruciale. Sarebbe interessante ridisegnare le geometrie politiche dell’intera vicenda della «Seconda Repubblica» ponendo in primo piano proprio la difesa del «vincolo esterno» (o la sua contestazione), perché alla luce di una simile indagine probabilmente tutte le più consuete linee di divisione dovrebbero essere abbandonate in favore di una nuova mappa di alleanze. Forse però oggi le condizioni sono ormai mature anche per valutare gli esiti di quel grande progetto ‘ortopedico’ e ‘pedagogico’ che Carli si proponeva con l’idea di un nuovo «vincolo esterno». A questo proposito, non si può negare che Carli non avesse colto nel segno, individuando nel Trattato di Maastricht un dispositivo che avrebbe cancellato gran parte dell’autonomia di cui la classe politica aveva potuto disporre in precedenza. E, inoltre, Carli aveva anche compreso nitidamente che proprio il «vincolo esterno» avrebbe favorito la progressiva eliminazione di quei due fattori cui nell’Intervista sul capitalismo degli anni Settanta aveva attribuito il «deterioramento» della situazione italiana e la distruzione dello «spirito imprenditoriale»: lo Statuto dei lavoratori e «la rigidità della forza-lavoro». Ma, se per quanto concerne il livello ‘interno’, la strategia di Carli sembra aver pienamente raggiunto gli obiettivi principali, per quanto attiene invece la dimensionale ‘esterna’ le cose sono molto diverse. Perché Maastricht e la moneta unica hanno inferto – e sarebbe impossibile negarlo – un colpo davvero duro alla competitività economica italiana, oltre che alla stessa società italiana e, ovviamente, alla stessa vitalità delle istituzioni democratiche. Quello «spirito imprenditoriale» di cui Carli auspicava la rinascita non ha d’altronde mai ripreso il vigore sperato, e una parte della ‘nuova classe dirigente’ italiana ha semmai mostrato una marcata vocazione predatoria e una predilezione per la rendita (ed è sufficiente pensare alla tragica vicenda delle ‘privatizzazioni’ degli anni Novanta per averne una conferma).
Al termine del suo lavoro, Diodato concede ancora qualche margine alla possibilità che l’Italia riesca a rovesciare a proprio favore il vincolo esterno, nonostante una notevole mole di indicatori (relativi alla competitività e allo sviluppo umano) sembri fornire un quadro piuttosto cupo, e nonostante la perdita di gran parte del residuo prestigio internazionale sia ormai innegabile. «L’Italia deve fare i conti con i suoi ritardi rispetto alla modernità, e fino a quando non riuscirà a immaginare se stessa come una nazione europea, quindi ad assumere una linea di politica estera che, senza cancellare il vincolo monetario, riesca a gestirlo e governarlo, difficilmente riuscirà a frenare l’inerziale indebolimento e la perdita di prestigio» (p. 156). E in vista di un simile obiettivo, suggerisce Diodato, potrebbe forse aprirsi una finestra di opportunità quando in sede europea saranno finalmente considerati i problemi della periferia. Ma naturalmente – e su questo punto è legittimo essere più pessimisti di Diodato – è proprio tale condizione che rimane per molti versi improbabile, rendendo la ‘chiusura del cerchio’ un’operazione pressoché impraticabile. Non certo perché non siano chiari gli squilibri economici e perché non esistano ipotesi d’azione concreta. Ma perché non sembra affacciarsi all’orizzonte nessuna di quelle condizioni che potrebbero sbloccare lo stallo dell’Unione Europea, modificando così la netta contrapposizione fra Nord e Sud. E proprio per questo motivo, diventa molto più plausibile il rischio che il «vincolo esterno» – quel vincolo in cui Carli prefigurava la salvezza dell’Italia – si tramuti per molti nel simbolo stesso di una democrazia morente e di una società in decomposizione.

Damiano Palano



Se la scienza politica dimentica il potere. Intorno a una provocazione di Emidio Diodato

Il libro di Emidio Diodato, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, pp. 117, euro 14.00), cui è dedicato questo testo, verrà presentato all'Università Cattolica, a Milano, martedì 26 aprile alle 14.30, in un dibattito cui parteciperanno, oltre all'autore, Corrado Stefanachi, Stefano Procacci e Damiano Palano. L'incontro è inserito nel ciclo Democrazie in tensione.

di Damiano Palano

È piuttosto sorprendente che il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, Milano, pp. 172, euro 15.00), sia passato quasi inosservato persino fra i più attenti politologi del nostro paese, e che così siano del tutto sfuggite le provocazioni che il testo muove ad alcuni luoghi comuni consolidati. Il volume di Diodato affronta in effetti una serie di questioni decisive per comprendere la situazione in cui versa oggi la penisola, ma in particolare – e qui sta in gran parte l’originalità del libro – tenta di mostrare come la ‘de-democratizzazione’ del sistema politico italiano non sia l’effetto né del «berlusconismo» e neppure del controllo esercitato sul Belpaese dalla «tecnocrazia» di Bruxelles (o da un’Unione Europea nelle mani della Germania). La tesi centrale di Diodato – una tesi meritevole di una discussione ben più approfondita di quella che le può essere riservata in questa sede – è infatti che una parte della classe dirigente italiana abbia più o meno consapevolmente individuato nell’introduzione di un «vincolo esterno», rappresentato dall’Ue disegnata a Maastricht, lo strumento con cui ‘disciplinare’ e ‘frenare’ l’ostilità ai principi dell’economia di mercato diffuse nella società italiana (oltre che nella stessa classe politica) e dunque per adeguare il paese alle esigenze dell’economia globale. E ciò cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, e soprattutto dal 2011 a oggi, non sarebbe dunque niente altro che il mesto epilogo di una vicenda cominciata ormai più di vent’anni fa. 
Fra le molte interessanti osservazioni che si possono rinvenire nelle pagine di Diodato, al lettore più smaliziato non può però certo sfuggire una piccola – ma tutt’altro che marginale – annotazione polemica. Ad un certo punto, con l’obiettivo di comprendere come possa essere misurato oggi il potere di uno Stato, Diodato si confronta infatti con la necessità di definire la politica, e in particolare con la difficoltà di cogliere quale sia la relazione tra la «visibilità» della politica e la sua «ubiquità». Ed è proprio in corrispondenza di un simile snodo argomentativo che il politologo formula un interrogativo provocatorio, che chiama in causa la scienza politica dell’ultimo trentennio. Scrive infatti Diodato: «Come sciogliere questo nodo ontologico, vale a dire la divergenza fra autonomia e ubiquità della politica, senza approfondire il tema della vera natura del potere? La domanda non è pleonastica. Piaccia o meno, occorre ammettere che la scienza politica italiana, affermatasi nel corso della seconda metà del Novecento, ha rinunciato a indagare il tema della vera natura del potere. Dando ragione, sul punto, tanto a Sartori quanto a Bobbio. Chi ha cercato una risposta a questo nodo ontologico ha quindi seguito percorsi paralleli, riferendosi, almeno nei casi più rilevanti in Italia, al giurista tedesco Carl Schmitt (penso soprattutto alla riflessione di Gianfranco Miglio, Carlo Galli e Massimo Cacciari)» (p. 31).
La provocazione di Diodato si inquadra all’interno di una riflessione che punta a recuperare alcune delle intuizioni del pensiero geopolitico novecentesco, e che dunque si propone di considerare anche aspetti spesso trascurati (per non dire completamente dimenticati) dalla politologia più recente e dalle stesse Relazioni Internazionali (per ricostruire le tappe della riflessione compiuta in questa direzione dall’autore, si vedano per esempio alcuni suoi recenti lavori, come Il paradigma geopolitico. Le relazioni internazionali nell’età globale, Meltemi, Roma, 2010, e Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma, 2011, oltre che il volume curato dallo stesso Diodato, Relazioni internazionali. Dalle tradizioni alle sfide, Carocci, Roma, 2013). Anche nel Vincolo esterno, con riferimento alla politica estera italiana, Diodato intende così di articolare una visione multidimensionale del potere, capace di tenere conto tanto di componenti interne alla sfera statale, quanto di aspetti che invece riguardano la collocazione dello Stato nello spazio politico globale. La provocazione indirizzata alla scienza politica consente però di allargare lo sguardo ben oltre il quadro verso cui si dirigono le energie di Diodato. Perché in effetti, per quanto possa apparire ad alcuni forse ingeneroso, quello spunto polemico coglie davvero un nervo scoperto nella riflessione politologica italiana. 
Naturalmente il bersaglio cui si rivolge l’appunto di Diodato va individuato con precisione, per evitare fraintendimenti, nel senso che deve essere chiaro che lo studioso si riferisce in modo specifico alla «scienza politica italiana, affermatasi nel corso della seconda metà del Novecento». Come scriveva molti anni fa Norberto Bobbio, l’espressione «scienza politica» può essere d’altronde intesa in due sensi diversi. In un’accezione più ampia, viene a denotare qualsiasi analisi del fenomeno politico, «condotta con una certa sistematicità, appoggiata sull’esame di fatti, esposta con argomenti razionali»: in questo primo significato il riferimento alla ‘scienza’ allude dunque a un sapere differente rispetto a quello della semplice ‘opinione’, un sapere che si pone come obiettivo «non abbandonarsi alla credenza del volgo, non trinciare giudizi in base a dati non accertati, rimettersi alla prova dei fatti» (N. Bobbio, Scienza politica, in Scienze politiche 1. Stato e politica, a cura di A. Negri, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 432). Se si definisce la scienza politica in questo modo, evidentemente molti grandi classici del pensiero politico possono essere considerati come scienziati politici, e fra questi naturalmente proprio quel Machiavelli che Diodato cita spesso nel suo volume, e cui certo non si può rimproverare di non aver indagato cosa sia il potere e quali siano le condizioni per conquistarlo, accrescerlo, conservarlo. Ma accanto a tale prima accezione, se ne trova una seconda, più tecnica: un’accezione che sta a indicare «un orientamento di studi che si propone di applicare all’analisi del fenomeno politico nei limiti del possibile, cioè nella misura in cui la materia lo permette, ma con sempre maggior rigore, la metodologia delle scienze empiriche (così com’è stata elaborata e in parte codificata dalla filosofia neopositivistica)» (ibidem). Ed è ovviamente proprio a questa specifica visione della scienza politica che Diodato allude nella sua annotazione polemica. In sostanza, la scienza politica cui Diodato rimprovera di aver rinunciato a indagare il potere (e forse di averlo addirittura dimenticato) è proprio quella disciplina che, nel corso dell’ultimo mezzo, ha definito la propria identità professionale a partire dai presupposti del neopositivismo, o quantomeno a partire a quella versione del ‘neopositivismo politologico’ che Giovanni Sartori fornì in alcuni dei suoi scritti più importanti degli anni Cinquanta e Sessanta.
Il limite che Diodato segnala non riguarda naturalmente solo la scienza politica italiana, perché per molti versi il potere cessa di essere uno degli oggetti privilegiati della ricerca politologica già attorno agli anni Settanta anche negli Stati Uniti, quando il dibattito fra pluralisti, neo-elitisti e anti-elitisti tende ad arenarsi su una serie di banchi di sabbia. Da allora incomincia peraltro anche quella frammentazione della disciplina in campi di specializzazione fra loro sempre più autonomi che rende talvolta difficile parlare della scienza politica come di una disciplina effettivamente unitaria. Ma quella sostanziale ‘rimozione’ del potere dall’agenda di ricerca teorica ed empirica non può non stupire nel caso della scienza politica italiana. Perché la ricerca sul potere – non solo la ricerca su ‘chi’ detenga il potere, ma anche l’indagine su ‘cosa’ sia il potere – caratterizza in Italia, forse più che in ogni altro paese, la riflessione politica.
Senza scomodare i classici del pensiero italiano, è infatti sufficiente pensare alla storia della scienza politica del Novecento. Per quanto la riflessione di Gaetano Mosca e il suo tentativo di fondare una «scienza politica» possano essere considerati oggi solo come una pallida anticipazione della ‘vera’ disciplina, è infatti evidente come il pensatore siciliano avesse collocato alla base dell’edificio della sua teoria della classe politica proprio quella grande, eterna domanda sulla natura del potere, cui ovviamente forniva una risposta ben precisa. E un interrogativo simile avrebbero ripreso non solo i grandi alfieri del cosiddetto «elitismo italiano», ma anche tutti i principali cultori della scienza politica italiana fino agli anni Settanta del Novecento: studiosi che – pur coltivando l’ambizione di raggiungere una conoscenza scientifica della politica – non rinunciavano a tentare di comprendere cosa fosse il potere e quali fossero le grandi «regolarità» della politica. E con qualche forzatura (ma senza eccessive difficoltà), si potrebbe annoverare fra i principali cultori di questa ‘via italiana’ alla scienza politica persino il nome di Antonio Gramsci, la cui riflessione sull’«egemonia» costituisce ancora oggi una fonte cui molti politologi (in special modo internazionalisti) continuano ad attingere. Ma, per rimanere entro il perimetro della ricerca accademica, è quasi scontato pensare, per esempio, a Bruno Leoni, a Giuseppe Maranini e a Gianfranco Miglio, esponenti proprio di quella stessa generazione che – a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta – difese la legittimità della scienza politica: sebbene quegli studiosi non condividessero affatto la medesima visione della scienza politica (e basti pensare in questo senso alla distanza che separava Leoni da Miglio), ognuno di loro individuava però l’oggetto specifico della disciplina nello studio del potere politico, ossia nelle modalità della sua produzione e della sua distribuzione. E proprio per questo, più che imboccare il sentiero di una ricerca puramente empirica, dovevano porsi domande che non potevano non essere affrontate innanzitutto sul terreno della teoria politica. Un terreno in cui diventava inevitabile confrontarsi con i classici, ma in cui comunque non veniva mai smarrito l’obiettivo cruciale della comprensione dei processi politici ‘reali’.
Non si può certo dire che nell’ultimo quarantennio la scienza politica italiana non abbia conosciuto un’enorme sviluppo e un significativo consolidamento nella comunità accademica italiana. A partire dai primi anni Settanta, quando iniziò a prendere forma l’associazione professionale che raccoglie i cultori della disciplina, il numero degli scienziati politici incardinati nell’accademia italiano si è infatti notevolmente accresciuto. E inoltre, sebbene l’immagine pubblica della scienza politica sia tutt’altro che chiaramente definita, nessuno – quantomeno sul piano del dibattito intellettuale – mette più in discussione la legittimità dell’indagine politologica. Ciò nondimeno, è evidente a chiunque come la condizione per un simile successo sia stata anche la rottura netta il passato, e dunque con quegli stessi ‘precursori’ che – da Mosca a Miglio, passando per Gramsci – avevano a loro modo cercato di battere la strada della ‘via italiana’ alla scienza politica. 
Naturalmente ciò non significa che siano state del tutto recisi i legami col passato. Molto più di quanto faccia qualsiasi altra disciplina, non solo in Italia, la scienza politica ha anzi costruito una sorta di mito di fondazione, in cui il ruolo di patriarca viene assegnato a Giovanni Sartori. E chiunque abbia assistito a qualche convegno della Società Italiana di Scienza Politica (Sisp) non ha difficoltà a comprendere l’importanza che, nella costruzione dell’identità disciplinare, è venuto a giocare (sempre più spiccatamente negli ultimi anni) una sorta di suggestivo racconto delle origini. Un racconto in cui Sartori, novello Mosè, dopo aver ricevuto una chiamata in giovanissima età agli studi politologici, viene rappresentato come il profeta capace di fronteggiare i nemici provenienti da ogni direzione e di guidare il proprio popolo in una lunga traversata del deserto, destinata a concludersi con l’approdo alla Terra promessa, coincidente più o meno con la fondazione della «Rivista Italiana di Scienza Politica».
Naturalmente sarebbe piuttosto facile smontare questa ricostruzione e dunque osservare con uno sguardo un po’ più critico le dinamiche con cui si affermò in Italia la legittimità della scienza politica (chi scrive ha cercato di contribuire a questa riflessione in un libro di qualche anno fa: Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2005). Ma si tratterebbe probabilmente di un’operazione ormai tardiva. Perché, a ben vedere, quel grande mito delle origini – puntualmente rievocato in rituali talvolta persino caricaturali – ha ormai ben poco a che vedere con ciò che è diventata oggi la scienza politica italiana. In effetti non è difficile riconoscere che – procedendo ben oltre le posizioni ‘neopositiviste’ di Sartori e persino di molti dei suoi allievi più coriacei – la scienza politica italiana ha completamente espulso dai propri confini proprio la dimensione teorica della ricerca sulla politica. 
Ancora un quarto di secolo fa, in un rapporto steso per la Fondazione Agnelli sullo stato della ricerca politologica in Italia, non mancava un lungo capitolo dedicato a Teoria e macropolitica, al termine del quale Leonardo Morlino, interrogandosi sul futuro della teoria, osservava: «proprio l’accumularsi di studi e ricerche e la necessità di nuove ricerche rendono a loro volta indispensabili dei momenti di sintesi e di riflessione. E se, probabilmente, una teoria generale non è più possibile e neppure auspicabile, tuttavia fino a che avrà senso giungere a visioni più sintetiche anche la macropolitica – sub specie, soprattutto, di teorie a medio raggio – continuerà ad essere indispensabile» (L. Morlino, Teoria e macropolitica, in Id., a cura di, Scienza politica, Fondazione Agnelli, Torino, 1989, p. 84). Oggi gli auspici di Morlino sembra invece siano andati del tutto delusi. E da questo punto di vista è sufficiente dare un’occhiata alla mappa dell’odierna ricerca politologica italiana proposta nel recente volume Quarant’anni di scienza politica: tra i principali settori di ricerca indicati dai soci della Sisp, la teoria politica non pare infatti essere rilevante per quasi nessuno dei rispondenti (2 risposte su 362, pari allo 0,5%) (cfr. Quarant’anni di scienza politica, a cura di G. Pasquino – M. Regalia – M. Valbruzzi, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 13). 
È persino scontato che molti politologi debbano considerare con sollievo l’espulsione della teoria politica dal perimetro della disciplina, quantomeno perché in questo modo possono ritenere raggiunto l’obiettivo di ‘depurare’ l’analisi empirica da incrostazioni valoriali, da infiltrazioni ideologiche, da inquinamenti ‘filosofici’. Discutere oggi l’ingenuità di questa posizione – davvero attardata su una caricatura del ‘neopositivismo’ – sarebbe persino inutile, se una simile visione, spesso sostenuta da un’animosità degna di miglior causa, non producesse però esiti disastrosi, che riguardano, innanzitutto, la stessa capacità di comprendere i processi politici in atto e le trasformazioni nelle relazioni di potere. Probabilmente, come suggerisce in parte Diodato nel suo volume, chiunque intenda capire davvero cosa sta accadendo in questi anni – in Italia, in Europa e nel mondo – dovrà infatti mettere da parte molti degli arnesi che la scienza politica degli ultimi trent’anni ha costruito, per studiare cose spesso sostanzialmente irrilevanti o scontate (talvolta solo per dimostrare la capacità di utilizzare correttamente gli strumenti di ricerca). E per questo si troverà anche a difendere la legittimità della teoria politica, e a ricollocare al centro della discussione quella vecchia domanda su «cos’è il potere?» di cui Diodato biasima l’assenza nel dibattito odierno. 
Ma un aspetto forse non del tutto irrilevante di questa battaglia culturale passerà forse anche dalla comprensione dei motivi che hanno condotto la scienza politica a tagliare completamente quelle radici che affondavano nella grande teoria politica italiana (oltre che con nella stessa identità culturale italiana). Certo in questo percorso l’impronta ‘neopositivista’ ha avuto – e continua ad avere – un peso notevole, così come un’incidenza ha avuto anche la crescente internazionalizzazione della disciplina, con la conseguente spinta a uniformarsi agli indirizzi adottati all’estero. Ma è probabile che una spiegazione non possa essere trovata esclusivamente in questi fattori. Non è da escludere infatti che a spingere i politologi italiani a tagliare definitivamente i ponti con il passato e a ‘liberarsi’ della teoria politica, ormai percepita solo come una zavorra, sia stata anche, in una certa misura, quell’impronta ideologica che segnò in Italia la rinascita della scienza politica. 
Nella battaglia per la conquista di una legittimità, Sartori ebbe la necessità di delimitare chiaramente lo spazio della nuova disciplina, rispetto a quello di altri campi di studio ben più consolidati, come in particolare quelli delle scienze giuridiche, delle scienze storiche e della filosofia (oltre che quello della sociologia). Ma la difesa della legittimità della scienza politica – quantomeno nella versione che ne svolgeva Sartori – si proponeva anche come una battaglia contro le principali culture politiche italiane e contro la visione della politica riconducibile ai due principali partiti italiani, il Partito comunista e la Democrazia cristiana. E, non casualmente, Gianfranco Pasquino torna proprio su questo aspetto, nel momento in cui ricostruisce le tappe della difficile affermazione della disciplina e in cui rievoca i principali avversari contro cui Sartori dovette compiere la propria campagna: «Il primo bersaglio, quello politicamente più grosso, era costituito dalla cultura politica, in senso lato, predominante in Italia, nelle sue due versioni più diffuse: la blanda ideologia del cattolicesimo (più o meno) democratico presente, ma non egemonico, nella Democrazia cristiana, e il marxismo del Partito comunista, prevalentemente declinato secondo moduli variamente gramsciani e/o storicisti. L’elemento comune ad entrambe le ideologie, a prescindere dalle loro pratiche concrete, era rappresentato dal non riconoscimento dell’autonomia della politica, e, tantomeno, dalla specificità del suo studio» (G. Pasquino, Bilancio della scienza politica italiana tra professione e vocazione, in Quarant’anni di scienza politica, cit., p. 238). Naturalmente si potrebbe discutere della effettiva negazione dell’autonomia della politica da parte dei filoni delineati un po’ impressionisticamente da Pasquino. Quel che è certo è che la difesa dell’autonomia della politica – e dunque della legittimità della scienza politica – da parte di Sartori si sposò fin dall’inizio con l’adozione di una ben precisa visione della politica, una visione riconducibile alla rispettabile tradizione del liberalismo conservatore. Ogni lettore di Sartori sa d’altronde molto bene quanto peso abbia nella riflessione dello studioso fiorentino questa visione della politica, e come per questo sia spesso molto difficile distinguere nettamente le sue argomentazioni ‘scientifiche’ dalle sue convinzioni ‘ideologiche’. Tanto che, a ben guardare, il tanto celebrato Democrazie e definizioni può essere considerato – senza alcuna forzatura – anche come un feroce pamphlet anticomunista e antimarxista, oltre che come la ‘pietra di fondazione’ della riflessione politologica italiana sui caratteri distintivi di un regime democratico. Proprio quell’impostazione ideologica (un’impostazione ideologica in verità quasi mai esplicitata, ma che davvero trasuda da ogni pagina di Sartori e da molti degli articoli quantomeno dei primi dieci anni della «Risp») giocò in molti sensi nella definizione dei contorni della disciplina. Una implicazione dell’adozione di quella prospettiva fu che la scienza politica assunse – quasi necessariamente – un ruolo critico nei confronti del quadro politico della «Prima Repubblica». Ma questa condizione venne del tutto meno nel quadro politico che si formò a partire dai primi anni Novanta, con la nascita della «Seconda Repubblica».
Sebbene sia certo difficile individuare delle responsabilità dirette dei politologi – quantomeno dei politologi in quanto gruppo professionale – nell’avvio della transizione, è invece assai più semplice riconoscere come molte delle parole d’ordine brandite dagli scienziati politici italiani per biasimare la classe politica della «Prima Repubblica» diventassero, al principio degli anni Novanta del secolo scorso, una sorta di patrimonio comune: la convinzione che tutti i problemi italiani derivassero dall’assenza di alternanza al governo, dall’occupazione del centro, dalla presenza di un forte partito anti-sistema e dalla conseguente irresponsabilità tanto del governo e dell’opposizione usciva allora dalle pagine delle riviste specialistiche per entrare nelle argomentazioni dell’«uomo della strada». E quella vaga ideologia liberale che negli anni Cinquanta e Sessanta era stata patrimonio di alcuni esclusivi circoli intellettuali venne a definire i contorni della nuova koinè in cui tutta la classe politica italiana – vecchia e nuova – riconosceva i propri indiscutibili riferimenti intellettuali. Naturalmente si può discutere sulla sincerità di quelle – più o meno improvvise – conversioni al liberalismo (e spesso al liberismo economico) da parte della classe dirigente. Ma il punto è che la scienza politica italiana, dinanzi a questo brusco passaggio di fase, si trovò, più che spiazzata, sostanzialmente scavalcata. E da quel momento apparve costretta a rincorrere gli eventi, gli slogan, i leader, incapace di articolare un’analisi in grado di andare oltre la superficialità, spesso anche meno capace di comprendere la realtà dei mutamenti di quanto si mostrassero altri osservatori, più o meno digiuni dei rudimenti dell’analisi politologica. 
Oggi, a più di vent’anni di distanza, è piuttosto chiaro come molte delle convinzioni coltivate all’alba della «Seconda Repubblica» fossero autentici abbagli. E gli storici del pensiero di domani troveranno persino sconcertante come nelle migliaia di pagine prodotte dalla «Risp» fra il 1991 e il 2011 risultino del tutto assenti analisi dell’integrazione europea nelle quali siano ravvisabili anche solo pallide tracce di una prospettiva non schiacciata su un europeismo acritico.  Ma ciò che più conta è che proprio l’atteggiamento di passiva omologazione culturale al quadro politico della «Seconda Repubblica» ha finito col favorire ulteriormente la rimozione della teoria politica. Spinti dall’enfasi del cambiamento, molti politologi italiani giunsero infatti a gettare nel cestino tutto quanto era stato prodotto prima del 1992 e col credere che davvero l’Italia «finalmente» maggioritaria fosse un’Italia ‘diversa’, matura e migliore rispetto a quella della «Prima Repubblica». Probabilmente anche per questo iniziarono così a convincersi che i tempi fossero ormai maturi per rompere definitivamente con tutte quelle grandi domande che i cultori della  teoria politica si erano posti. E che fosse ormai arrivato il momento di rimuovere definitamente anche la vecchia domanda su ‘cosa’ sia il potere, su quali siano le risorse che consentono di conquistarlo, di conservarlo, di accrescerlo. Ma una disciplina che tagliava definitivamente quei fili che la legavano al passato – e alla stessa identità culturale italiana – non poteva non diventare una disciplina schiacciata sul presente, priva di qualsiasi prospettiva storica, incapace di qualsiasi funzione realmente critica.
Più di tante analisi, c’è forse un’immagine che riesce a fotografare la condizione intellettuale in cui si trova oggi la scienza politica italiana. Proprio in occasione della presentazione del volume sui quarant’anni della disciplina, nel corso Convegno della Sisp tenutosi a Firenze nel settembre 2013, l’allora Presidente dell’associazione annunciava ai soci che il previsto incontro con il sindaco della città toscana – Matteo Renzi – era stato annullato. Ormai lanciato verso la conquista della Presidenza del Consiglio, l’ospite tanto atteso aveva infatti disertato l’incontro. In realtà l’assenza del sindaco era considerata pressoché scontata (forse anche a causa del titolo non proprio conciliante assegnato all’incontro: «Esame di scienza politica a Matteo Renzi»), e d’altronde i partecipanti al convegno si fecero ben presto una ragione dell’annullamento del confronto. Ma per mostrare la propria buona fede – una buona fede che peraltro mai nessuno avrebbe messo in discussione – il Presidente dell’associazione ritenne opportuno riepilogare dinanzi all’assemblea dei soci tutte le tappe che avevano condotto all’organizzazione del dibattito, esibendo persino la documentazione relativa alle comunicazioni intercorse nei mesi precedenti con il sindaco e il suo staff. Naturalmente dalla ricostruzione (a tratti persino sesquipedale) condotta dal Presidente, emergeva in termini inoppugnabili come l’incontro fosse stato pianificato con grande anticipo e come la mancata partecipazione del sindaco di Firenze fosse imputabile esclusivamente alla scarsa correttezza del politico, oltre che forse alla volontà di eludere un confronto che avrebbe potuto metterlo in difficoltà.
Ovviamente quell’incontro non avrebbe cambiato la politica italiana e, d’altronde, proprio nessuno si attendeva dal dibattito un seppur minimo arricchimento del dibattito scientifico e culturale. Ma proprio quel mancato appuntamento e l’astioso risentimento sollevato dalla diserzione dell’allora sindaco di Firenze riescono per molti versi a fissare la condizione in cui si trova la scienza politica italiana nella «Seconda Repubblica». Una scienza politica che – proprio come il Presidente dell’associazione – sembra inseguire costantemente (ma sempre senza successo) la classe politica italiana, alternando l’adulazione dei cortigiani al risentimento degli amanti traditi. Una scienza politica che appare sempre più schiacciata sul presente e incapace di confrontarsi realmente con i grandi mutamenti storici. E che, proprio per questo, è costretta a ricorrere la cronaca, senza ormai neppure la forza di guardare alla storia.

Damiano Palano






lunedì 25 aprile 2016

L’Italia senza bussola nel lungo inverno europeo. La politica estera della «Seconda Repubblica» nell’analisi di Emidio Diodato



di Damiano Palano

Il libro di Emidio Diodato, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, pp. 117, euro 14.00), cui è dedicato questo testo, verrà presentato all'Università Cattolica, a Milano, martedì 26 aprile alle 14.30, in un dibattito cui parteciperanno, oltre all'autore, Corrado Stefanachi, Stefano Procacci e Damiano Palano. L'incontro è inserito nel ciclo Democrazie in tensione.

In una calda serata romana dell’estate 1915, mentre percorreva per via Nazionale, Francesco Saverio Nitti ebbe modo di incrociare l’allora Presidente del Consiglio Antonio Salandra, che – come ogni giorno, al termine della giornata di lavoro – compiva una lunga passeggiata igienica per rientrare nella sua abitazione di via Carducci. Invitato da Salandra, Nitti – che rievocò l’episodio nelle sue memorie – accompagnò il Presidente del Consiglio nel tratto che conduce verso piazza Termini, e fatalmente, dopo alcuni cortesi convenevoli, la conversazione tra i due uomini politici finì per cadere sulla guerra. «Io» - ricorda Nitti - «evitavo di dirgli cosa alcuna che potesse dispiacergli; poi che in quel momento avevo risoluto di non creare difficoltà al governo. Ma fu egli stesso che mi disse che le cose procedevano bene, quantunque gli Austriaci avessero mostrato un’organizzazione e una resistenza maggiore di quello che si poteva supporre nei primi giorni». Pur senza esprimere apertamente i propri timori, Nitti non mancò di manifestare la sensazione che la guerra sarebbe stata lunga, e che avrebbe comportato per questo difficoltà notevoli. Proprio queste perplessità sollevarono in Salandra il sospetto che il collega non avesse abbandonato il proprio pessimismo. E lo scambio successivo fra i due statisti risolta da questo punto di vista quasi sconcertante, oltre che rilevatore. «Io gli risposi» - scrive Nitti - «che non ero pessimista e credevo alla vittoria finale, ma che mi rendevo conto della realtà. E a mia volta gli chiesi: “L’inverno sarà duro nelle Alpi. Hai provveduto completamente agli approvvigionamenti invernali per l’esercito?” Si fermò di botto. Eravamo sotto un fanale. Ricordo ancora la sua impressione di sorpresa e la sua aria diffidente. Mi disse: “Il tuo pessimismo è veramente inguaribile. Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?”»
Per chi rilegga le memorie di Nitti a un secolo di distanza dalla carneficina della Prima guerra mondiale, l’esibito ottimismo di Salandra non può che suonare piuttosto familiare. Perché, nel corso della «Seconda Repubblica», l’esibizione di ottimismo esasperato – un ottimismo talvolta caricaturale, ma sempre sprezzante nei confronti di quanti, sottolineando semplici dati di realtà, finiscono per essere svillaneggiati come alfieri di un deprecabile ‘sfascismo’ – ha spesso costituito l’arma retorica principale di tutti i principali leader che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Anche se – presto o tardi – il forzato ottimismo ha invariabilmente avuto la peggio nell’impietoso confronto con i fatti. Ma forse le memorie di Nitti possono anche offrire un buon prologo per rileggere l’intera storia italiana dell’ultimo trentennio. Perché probabilmente si può riconoscere qualcosa della sconcertante combinazione fra sventato ottimismo, colpevole dilettantismo e criminale improvvisazione, che trascinò l’Italia nella tragedia della Grande guerra, anche nelle dinamiche che condussero la classe politica della tramontante «Prima Repubblica» a sottoscrivere la decisione destinata a determinare il destino del Paese per decenni, e cioè la firma del Trattato di Maastricht.
Alcuni anni fa, nel suo prezioso volume Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, Milano, 2114), rileggeva proprio le dinamiche che avevano condotto l’Italia a Maastricht, inserendo quella decisione all’interno di una storia di lungo periodo. L’idea di fondo di Diodato – un politologo che, col garbo compassato dello studioso super partes, riesce, quasi senza darlo a vedere, a smontare pezzo dopo pezzo molti dei più consolidati e frusti luoghi comuni della discussione sul ‘caso italiano’ – era che  il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisca sempre il riflesso delle trasformazioni che si producono nel sistema internazionale. Ma, soprattutto, in quel libro Diodato - anche sulla scorta dell'impostazione illustrata in alcuni suoi testi precedenti, come in particolare Il paradigma geopolitico (Meltemi, Roma, 2010) e Che cos'è la geopolitica (Carocci, Roma 2013) - tentava di cogliere l’intreccio strettissimo tra la dimensione interna e quella internazionale della politica italiana, sottolineando il peso che avevano avuto – nell’indirizzare la democratizzare italiana del secondo dopoguerra – tre «vincoli esterni»: innanzitutto, l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale; in secondo luogo, l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979; e infine l’adesione ai rigidi parametri fissati a Maastricht. Fra le molte sollecitazioni che quel volume sottoponeva al dibattito (anche relative al modo di concepire gli studi politici), Diodato suggeriva una risposta alla domanda sui motivi che avevano spinto la classe politica della «Prima Repubblica», ormai al termine della sua parabola, a sottoscrivere (e anzi ad appoggiare con entusiasmo) un trattato che, di fatto, comportava la fine della ‘sovranità economica’ italiana e che, soprattutto, implicava enormi rischi per l’economia del Paese. La tesi di Diodato, da questo punto di vista, era quasi cristallina: con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia risultarono rapidamente inservibili, tanto da mettere in crisi l’immagine di «media potenza regionale» costruita nel corso dei decenni.
L’assenza di una politica estera adeguata al nuovo scenario aprì invece uno spazio di manovra all’iniziativa di Guido Carli, ministro del Tesoro ai tempi della sottoscrizione del Trattato Maastricht (oltre che principale negoziatore italiano nelle lunghe trattative che precedettero la firma). In particolare, Carli intuì come il nuovo contesto – dominato dalla riunificazione tedesca – offrisse una strada praticabile alla costruzione di un nuovo «vincolo esterno», cui ancorare la classe politica italiana e l’economia di un Paese, secondo la visione dell’ex Governatore della Banca d’Italia, ‘antropologicamente’ ostile ai principi dell’economia di mercato. Ma il nuovo «vincolo esterno» – come scriveva Diodato – ha finito col tradursi in un fardello sempre più pesante: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (ibi, p. 103). 
Nel suo volume più recente, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, pp. 117, euro 14.00), Diodato riprende questa tesi, per ragionare in particolare sulla collocazione internazionale del Paese nel corso della «Seconda Repubblica». Un primo nodo che Diodato tenta di dipanare nel suo nuovo lavoro è quello che stringe il crepuscolo della «Prima Repubblica» alla nascita della «Seconda». E qui non può evitare di tornare al ruolo chiave giocato da Guido Carli al tavolo dei negoziati destinatati a partorire il Trattato sull’Unione europea, approvato dai capi di governo della Comunità europea nel dicembre 1991 e poi firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Benché il Trattato fosse approvato dal Parlamento pochi mesi dopo con una semplice legge di ratifica, era chiaro a molti che, di fatto, l’adozione delle misure fissate a Maastricht implicava una modifica di carattere costituzionale (in ordine al diritto di voto nelle elezioni amministrative). Ma, paradossalmente, non ci si avvide – o non si sottolineò nel corso del dibattito – un aspetto ben più rilevante: e cioè, come scrive Diodato, «che si stava procedendo in modo irreversibile all’abbandono dell’individualismo nazionale su questioni di sovranità monetaria, totalmente, e su questioni di politica e di bilancio, parzialmente» (p. 21). Mentre «forse solo Carli ebbe piena consapevolezza del rilievo costituzionale del futuro assolvimento degli obblighi economici» (p. 21). 
Lacerato tra due diverse impostazioni – come egli stesso ammise – Carli si convinse probabilmente, nel passaggio tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, che la classe politica al governo del Paese (dunque democristiana e socialista) fosse del tutto incapace di avviare una riforma istituzionale e soprattutto di adottare criteri di rigore nella gestione della spesa pubblica. Il momento di svolta, per Carli, furono – secondo la ricostruzione proposta da Diodato, ma suggerita in qualche misura dallo stesso ex governatore della Banca d’Italia – le dimissioni di Mario Sarcinelli da Direttore generale del Ministero del Tesoro, nel dicembre 1990, in risposta alla richiesta dell’allora Ministro degli Esteri Gianni De Michelis di concedere un prestito ad Algeria e Unione Sovietica (paesi considerati a rischio dal Fondo monetario). Dopo le dimissioni di Sarcinelli, Carli nominò un gruppo di tecnici che avrebbe dovuto lavorare alla negoziazione del Trattato sull’Ue e che comprendeva personalità (di differente estrazione), come Mario Draghi, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Monti e Francesco Giavazzi. Ma il gesto di Sarcinelli confermò in Carli la convinzione che solo ancorando le scelte politiche a un «vincolo esterno» si sarebbe potuta evitare la deriva del sistema economico italiano. «La nostra scelta del vincolo esterno», ammise d’altronde Carli nelle proprie considerazioni retrospettive, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana,a  cura di P. Peluffo, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 267). In altre parole, Carli vide nel «vincolo esterno» uno strumento per ‘neutralizzare’ l’autonomia della classe politica e per costringerla in una camicia di Nesso di disposizioni ‘tecniche’ non aggirabili. In questo senso, Diodato coglie perfettamente la nitida logica ‘tecnocratica’ che sosteneva il ragionamento di Carli, e cioè una logica non semplicemente contrassegnata dall’idea che la ‘tecnica’ abbia proprie necessità, ma soprattutto dalla convinzione che la ‘tecnica’ e le sue ragioni siano superiori alla politica e si debbano imporre – persino con la forza – alla politica, nonostante ciò finisca col comportare una sostanziale ‘de-democratizzazione’: «In quanto strumento politico, il vincolo europeo rappresentò la disponibilità a sacrificare non solo un po’ di sovranità, ma anche la democrazia nazionale sull’altare dell’integrazione europea. Nella sua monocraticità, il tecnico che per primo lo propose accettò le vesti del custode platonico. Il suo apporto individuale nasceva dalla necessità di far fronte al sovraccarico della democrazia, ossia di un regime politico che autonomamente non sarebbe riuscito ad abbattere quei costi di transazione collegati alla difficoltà di mantenere impegni di lungo periodo in società complesse, particolaristiche e differenziate» (E. Diodato, Tecnocrati e migranti, cit. p. 26).
Se retrospettivamente risulta del tutto chiara l’impronta tecnocratica che indusse Carli e i negoziatori verso la strategia del «vincolo esterno», è invece molto più complesso comprendere per quali motivi la classe politica accettò, sostanzialmente senza neppure resistere, una simile proposta. Da questo punto di vista, la risposta che fornisce Diodato è molto interessante, perché, più che sottolineare l’incomprensione delle conseguenze di Maastricht da parte del ceto politico, si sofferma sulla debolezza che l’Italia maturò in campo internazionale a partire dal fatidico 1989, e dunque sul tentativo di ritrovare un nuovo spazio di credibilità e riconoscimento, proprio grazie alla sottoscrizione del Trattato sull’Unione europea. In particolare, Diodato si sofferma su quattro eventi, che consumarono nell’arco di pochi mesi la posizione di «media potenza» che l’Italia aveva faticosamente conquistato nel corso dei decenni: in primo luogo, la riunificazione tedesca, che il governo Andreotti tentò di osteggiare (evocando persino lo spettro del ritorno del «pangermanesimo») senza successo, spostando in seguito il proprio obiettivo sul rafforzamento dell’Europa, inteso come strumento in grado di bilanciare il ruolo della Germania, ma, al tempo stesso, senza perseguire una chiara linea sui poteri da assegnare al Parlamento europeo; in secondo luogo, la prima Guerra del Golfo, che spazzò via definitivamente il ruolo di interlocutore degli Stati Uniti nell’area mediorentale; inoltre, la dissoluzione della Jugoslavia, che vide nuovamente la sconfitta della linea italiana, dinanzi alla posizione tedesca, favorevole al riconoscimento internazionale di Slovenia e Croazia; infine, la crisi albanese, nell’agosto 1991, che esponeva per la prima volta l’Italia alla realtà di un flusso migratorio di massa, ma che contemporaneamente rendeva poco credibile agli occhi dei partner europei la capacità del Paese di controllare le proprie frontiere. Dinanzi a questi nuovi scenari, la linea adottata dal governo nei negoziati europei fu frammentata e mutevole, ma – tra le varie ipotesi – ebbe per questo la meglio proprio l’opzione ‘tecnocratica’, fondata sulla centralità del «vincolo esterno», sostenuto in modo continuativo e coerente da Carli e dai suoi collaboratori.
Al di là delle motivazioni che condussero l’Italia ad adottare – anzi a sostenere energicamente – il Trattato di Maastricht, i parametri fissati nel testo erano destinati a pesare in modo decisivo sui destini della «Seconda Repubblica». In questo senso, Diodato ritiene anzi che, oltre alla politica estera, l’intero complesso della politica interna italiana sia stato dominato dal «vincolo esterno». In altri termini, le forze politiche protagoniste del nuovo scenario si caratterizzarono proprio per il diverso atteggiamento adottato rispetto a Maastricht: mentre il centro-destra puntò, sin dal primo governo Berlusconi, a ‘rinazionalizzare’ la politica estera, il centro-sinistra adottò una prospettiva ‘internazionalista’, e cioè principalmente ‘europeista’. La ‘rinazionalizzazione’ del centro-destra non riguardava infatti rivendicazione territoriali, ma semplicemente i vincoli di Maastricht, e in nuce in questa posizione si nascondeva un euroscetticismo destinato a palesarsi sempre più chiaramente con il passare del tempo. Nell’internazionalismo del centro-sinistra allignava invece una contraddizione, perché si trattava di un internazionalismo che – a differenza del vecchio internazionalismo comunista – si fondava sulla centralità dei «vincolo esterno» europeo: una centralità che naturalmente poteva funzionare politicamente solo fino al momento in cui il vincolo avesse prodotto conseguenze ‘virtuose’ e non avesse implicato solo ‘sacrifici’ imposti agli elettori. E in questo senso, la parabola dell’Ulivo di Prodi illustra nitidamente la logica di fondo dell’operazione, oltre che tutta la sua debolezza: «Tra il 1996 e il 1998, il governo Prodi diede un significato molto preciso agli ‘interessi internazionali’ dell’Italia già evocati nel programma del 1994. Portare l’Italia in Europa e assegnare al paese responsabilità internazionali nella gestione della sicurezza era un modo sicuramente nuovo di intendere il ruolo del paese nella globalizzazione. Maastricht e Schengen dovevano certo essere adattati al sistema politico italiano, cercando di conciliare il rigore con l’equità e con l’accoglienza. L’Ulivo era dopotutto l’albero di un’Europa mediterranea, capace anche di equità e di accoglienza. Tuttavia, l’impronta europea e internazionale del governo Prodi delineava un percorso geopolitico che, mentre si discostava da quello del centro-destra, orientava la sinistra italiana in una direzione che deviava dalla strada dell’internazionalismo comunista» (p. 68). Ma non solo per questo l’Ulivo non riuscì a estendere la propria egemonia all’insieme della sinistra. Alla base del suo fallimento stava infatti, probabilmente, la difficoltà di far convivere il rigore tecnocratico con il sostegno degli elettori: «L’Ulivo di Prodi non riuscì a trasformare un progetto sostanzialmente tecnocratico, cioè governato dal rigore dei vincoli europei, in un progetto politico capace di coniugare la stabilità economica richiesta dai mercati con la crescita economica richiesta dagli elettori. Non vi riuscì nonostante che nella metà degli anni Novanta prevalesse ancora un sostanziale ottimismo legato alla globalizzazione economica» (p. 69). 
Dopo la breve esperienza del primo governo Berlusconi, la ‘rinazionalizzazione’ della politica estera portata avanti dal centro-destra si definì nitidamente a partire dal 2001, e in particolare in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre, quando la coalizione assunse uno specifico profilo ‘neoatlantista’: un neoatlantismo «ispirato dal fastidio per il vincolo europeo» e, dunque, «in parziale rottura con la stessa tradizione italiana», oltre che sostanziato di posizioni «quasi sempre dissonanti rispetto agli indirizzi prevalenti all’interno dell’Unione europea, in particolare per il fermo appoggio italiano al governo di Israele» (p. 82). Progressivamente, mentre peraltro Berlusconi si avvicinava sempre più a Putin, il centro-destra smarriva le proprie iniziali coordinate di politica economica, perché in un contesto di prolungata stagnazione – che in Italia, vale la pena di ricordarlo, iniziò a delinearsi già al principio del nuovo secolo – l’ottimismo degli anni Novanta e l’idea che fosse sufficiente ‘liberare’ le energie latenti nella società italiana si rivelavano armi del tutto spuntate. Ma fu in questo stesso quadro che, soprattutto dopo il 2008, la politica estera italiana prese a configurarsi sempre più chiaramente come una risposta al «vincolo esterno», anche per tentare di far fronte ai problemi creati da Schengen. 
Né l’europeismo del centro-sinistra, né il neoatlantismo del centro-destra erano destinati però a partorire «una politica estera europea capace di formare un blocco sociale egemone» o «una politica mediorentale e mediterranea capace di registrare le variazioni del grado di tensione internazionale nella regione, quindi di confrontarsi con le scelte degli altri paesi europei» (p. 99). In questo modo si aggravava ulteriormente lo storico ‘ritardo’ italiano rispetto al Vecchio continente. Ma il fallimento della «Seconda Repubblica» deve anche essere interpretato come un fallimento nell’aggiustamento strategico richiesto all’Italia dal nuovo contesto internazionale. In questo quadro, i risultati deludenti sul fronte mediterraneo conseguiti dall’Italia non furono però solo il frutto della frammentazione politica e della discontinuità degli indirizzi seguiti dai diversi esecutivi. Alla base di esiti in larga parte, secondo Didoato, insoddisfacenti, si trova infatti la stessa adesione italiana all’Europa di Schengen, con la quale di fatto venne adottata la linea di gestione delle politiche migratorie definita da Francia e Germania negli anni Ottanta. Come scrive in questo senso Diodato: «L’ingresso nell’Europa di Schengen nel 1997 non fu dunque una semplice decisione a favore della libera circolazione e dell’abolizione dei controlli alle frontiere comuni, ma un atto di politica estera con cui si accettò una certa visione della politica sull’immigrazione e della stessa politica estera dell’Unione europea e dei suoi Stati membri. Oltre a chiamare in causa le politiche di gestione dei flussi migratori, Schengen ha investito direttamente gli interessi geopolitici nazionali. Non si è trattato solo di decidere se e come conformare la politica immigratoria italiana alle politiche europee, ma di decidere se e come conciliare la scelta europea con le ambizioni di proiezione mediterranea dell’Italia. Il ritardo con cui l’Italia fece il suo ingresso nell’Europa di Schengen è imputabile, infatti, alla volontà del governo Craxi negli anni Ottanta di favorire una proiezione internazionale del capitalismo italiano nelle sue aree di riferimento tradizionali, Mediterraneo e Medio Oriente. Con l’ingresso nell’Europa di Schengen, qualsiasi scelta mediterranea e mediorentale del paese avrebbe dovuto confrontarsi con la decisione di rispettare il sistema europeo di regolamentazione dei flussi, nella condizione di paese di confine dell’Unione» (p. 103). Per molti versi dunque – questa la conclusione di Diodato – Schengen ha sottratto all’Italia la propria politica mediterranea, mentre i principi di Maastricht non sono stati in grado di fornire alla penisola una politica europea: «Osservando il decorso della politica estera dopo Schengen, alla luce delle lezioni apprese sulle missioni militari, l’incompiutezza della transizione italiana può imputarsi, oltre che alla difficoltà di mantenere gli impegni europei e a trovare una linea bipartisan, anche alla tensione geopolitica tra scelta europea e condizione mediterranea. Questa tensione ha impedito un’efficace regolazione strategica mediante le istituzioni internazionali e sovranazionali come l’Onu e l’Unione europea» (p. 103).
Proprio il ruolo assegnato a Maastricht e Schengen, nell’interpretazione della politica estera italiana, chiarisce il motivo per cui Diodato fissi già nel titolo la centralità dei tecnocrati e dei migranti. Il titolo riecheggia naturalmente altre grandi coppie – il soldato e il diplomatico, il mercante e il guerriero – che hanno dominato nel passato la scena internazionale. Ma, evidentemente, l’accostamento fra il tecnocrate e il migrante riflette anche qualcosa di radicalmente nuovo, se non altro perché il migrante non è un protagonista delle scelte politiche. Per Diodato, il tecnocrate è infatti la figura simbolo della stagione che stiamo vivendo, e più in particolare di quella sorta di «utopia tecnocratica» su cui il progetto europeo – nella variante di Jean Monnet, molto lontana da quella auspicata dal altri storici esponenti dell’europeismo, come Altiero Spinelli – si è fondato sin dalle origini. La centralità che il tecnocrate assume nella costruzione europea dipende infatti dalla stessa impronta neo-funzionalista adottata fin dagli anni Cinquanta. In virtù di una simile impronta il tecnocrate – «figura moderna del custode platonico, un guardiano che non evoca più, primariamente, l’azione di un protettorato armato, ma la decisione saggia di un sapiente qualificato da una superiorità etica, che ha le sue radici nel mondo della produzione e dell’economia» (pp. 8-9) – svolge la funzione di garante super partes sul rispetto delle regole ‘tecniche’ concordate dai paesi. Per una serie di decisioni politiche, «si realizza un trasferimento di poteri in senso tecnocratico», e soprattutto si afferma un principio tecnocratico «basato su un’amministrazione razionale, preferita al principio della rappresentanza elettiva, quindi su una scienza economica che alla fine prevalga sull’arte di governo» (p. 10). Questa tendenza in realtà non riguarda in modo specifico l’Ue. «La globalizzazione dei mercati», scrive infatti Diodato, «ha accresciuto l’importanza della credibilità degli impegni di lungo periodo e difficilmente i governi possono agire al di fuori dal quadro istituzionale europeo. Compito assegnato ai tecnocrati nazionale è allora quello di mantenere quella solidarietà de facto senza che i popoli cedano al sospetto che ciò avvenga nell’interesse di un paese a capito dell’altro» (p. 13). Ma è scontato che le conseguenze più rilevanti riguardino proprio i paesi membri dell’Ue. Al tempo stesso, la figura del migrante - «che tenta di entrare in modo abusivo affrontando per ogni via i tentativi europei di respingimento» - diventa la seconda figura simbolo dell’ultimo quarto di secolo, la «pietra dello scandalo dell’utopia tecnocratica», perché innesca una sfida indirizzata direttamente al ruolo del tecnocrate: «il migrante assegna ai tecnocrati il compito di mantenere una solidarietà europea de facto, senza che gli elettori nazionali cedano al sospetto che l’Unione imponga ai suoi membri di accogliere i richiedenti asilo nell’interesse di uno a scapito dell’altro» (p. 16). E l’accostamento tra «tecnocrati» e «migranti» – come scrive Diodato nelle pagine introduttive – riesce a cogliere così tutta l’eredità che il «vincolo esterno», fissato dai due trattati di Maastricht e di Schengen, consegna all’Italia della «Seconda Repubblica»: «Maastricht, la rinnovata scelta europea, seguita nel 1997 dall’ingresso dell’Italia nel sistema di Schengen, è la decisione più importante che il paese abbia preso dopo l’improvviso e inaspettato innalzarsi di quel sipario di ferro che, nel bene e nel male, aveva fortemente condizionato la storia repubblicana. Ma soprattutto, nel caso italiano, l’attuazione di Maastricht si accompagna alla crisi del sistema dei partiti e, come vedremo, favorisce quella transizione politica che ci si è affrettati a denominare ‘Seconda Repubblica’. È questa condizione, ossia il forte legame tra livello europeo e livello domestico, a rendere il caso italiano particolarmente rilevante. Le vicende internazionali ed europee e le vicende interne si intrecciano a tal punto che può apparire perfino vano qualsiasi tentativo di sbrogliare la matassa. Afferrare il bandolo, ciò che questo libro propone di fare, può però servire a scoprire quali sono gli intrecci principali, come e perché si sono formati, senza alcuna pretesa di chiarire o risolvere definitivamente il groviglio» (p. 18). Nonostante Diodato non pretenda di sciogliere l’intricato groviglio, la sua tesi pone però in primo piano proprio la dimensione internazionale, nel senso che ritiene che «seguendo le vicende della politica, tenendo sullo sfondo le figure del tecnocrate e del migrante, si possa comprendere meglio la transizione del sistema politico italiano in seguito alla rinnovata scelta europea» (p. 18). Ma Diodato non manca di rilevare opportunamente come l’«utopia tecnocratica» sia investita progressivamente, almeno da un decennio, da una duplice crisi di legittimità. Per un verso, la crisi economica «erode la legittimità di quei cittadini europei (non di passaporto tedesco) che non attribuiscono lo stesso peso alla lotta all’inflazione, che invece a partire dagli anni Venti è stata vista come un imperativo in Germania». «Lungo il crinale tra tecnica e tecnocrazia iniziano allora ad agitarsi tutti i governi nazionali, che non possono facilmente rinunciare al principio della rappresentanza elettiva e le cui politiche europee iniziano ad assumere il carattere di politiche estere della politica interna dell’Unione» (p. 10). Per l’altro, l’«utopia tecnocratica» si scontra con le conseguenze dell’allargamento (e dunque, da un certo punto di vista, con le conseguenze del potere attrattivo dell’Ue sugli aspiranti nuovi membri), soprattutto sul terreno della gestione delle politiche migratorie e in particolare in relazione ai principi fissati con il «regolamento di Dublino», in virtù del quale è lo Stato membro competente per la domanda di asilo che deve prendersi carico del richiedente. Mentre infatti «il regolamento ha una sua razionalità nel distribuire le competenze assegnandole agli Stati in cui è presentata la domanda di asilo», «quando il flusso migratorio assume le sembianze di un esodo inarrestabile, almeno nell’immaginario delle opinioni pubbliche nazionali», osserva Diodato, «allora il sistema si dimostra inefficace se non innesca un meccanismo tecnico che preveda un travaso di competenze dal livello nazionale a quello europeo» (p. 15). E proprio per questo, la realtà di flussi migratori, dinanzi ai quali la militarizzazione del confine non svolge le tradizionali  funzioni di ‘presa sulle vite’, finisce col mostrare l’inefficacia dell’utopia tecnocratica e con l’esporre quell’utopia a critiche sempre più radicali.
Negli ultimi anni il nostro modo di guardare alla costruzione europea è sensibilmente cambiato, e anche i più convinti sostenitori dell’«utopia tecnocratica» hanno dovuto prendere atto dei fallimenti, delle inefficienze, dei rischi cui espone il progetto di integrazione perseguito a partire dalla fine degli anni Ottanta. Parallelamente, quelle critiche che un tempo erano confinate alla schiera marginale e un po’ sospetta degli «euroscettici», sono diventate un patrimonio largamente condiviso. Naturalmente ciò non significa che le più sciatte polemiche dell’anti-europeismo siano effettivamente sempre fondate, o che sia legittimo rappresentare il processo di integrazione come una sorta di ‘complotto’ ordito da oscure élite ai danni dei popoli del Vecchio continente. Più semplicemente, per quanto concerne il ‘caso italiano’, il processo di integrazione per via ‘tecnocratica’ (e non ‘politica’) – come il libro di Diodato mostra in modo efficace – rappresentò uno strumento con cui alcune componenti delle classi dirigenti (che non possono certo essere ridotte al solo Carli) intesero adeguare il ‘sistema-Paese’ alle esigenze di un nuovo assetto, segnato dalla globalizzazione dei mercati e dalla crescita della competizione internazionale. In sostanza, l’«utopia tecnocratica» fu allora una scelta compiuta non solo nella convinzione che, per le sorti del Vecchio continente, la strada del ‘neofunzionalismo’ fosse adeguata e preferibile a ogni soluzione che anteponesse l’integrazione politica a quella economica, ma soprattutto  nella consapevolezza che quella opzione fosse in grado di ‘neutralizzare’ la classe politica italiana (in particolare la classe politica democristiana), di ‘costringerla’ ad adottare i principi del rigore di bilancio, e dunque di introdurre meccanismi ‘strutturali’ capaci di rendere ‘virtuosa’ la gestione della spesa pubblica. Naturalmente, tutto questo avveniva in momento storico in cui il debito pubblico italiano, a causa principalmente della separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, dopo essere raddoppiato nel corso di un decennio, era ormai del tutto fuori controllo. Ma, soprattutto, avveniva in un momento storico in cui la classe politica della «Prima Repubblica» appariva sempre più frammentata al proprio interno e sempre più priva di quelle risorse di credibilità internazionale su cui aveva puntato per fare dell’Italia una «media potenza», centrale nelle dinamiche del «Mediterraneo allargato». A distanza di un quarto di secolo dai mesi cruciali che condussero a Maastricht, possiamo forse considerare la decisione italiana di appoggiare con forza l’ipotesi dell’integrazione economica e monetaria, intesa come strumento capace di bilanciare la minaccia rappresentava dalla Germania riunificata, come una sorta di suicidio – forse non del tutto consapevole – per la classe politica della «Prima Repubblica». Ma, venticinque anni dopo la firma solenne del Trattato sull’Unione europea, abbiamo ormai anche la sensazione che l’«utopia tecnocratica» mostri una serie di crepe non rimarginabili, e destinate anzi a diventare sempre più profonde. Crepe di cui diventano simboli eclatanti, per un verso, la lettera del Presidente della Bce al governo italiano dell’agosto 2011 o il diktat europeo seguito al referendum greco del luglio 2015, e, dall’altro, l’isola di Lesvos e i muri di sbarramento che stanno nascendo al Brennero e su altri confini interni dell’Ue. Al tempo stesso, è sempre più evidente che anche la strategia tecnocratica di ‘risanamento’ della politica e dell’economia italiana in cui Carli aveva confidato, e che aveva affidato alle virtù del «vincolo esterno», si sia risolta in un fallimento, certificato dal declino economico del paese, dalla stagnazione prolungata, dal peso sempre più insostenibile del debito pubblico. Tanto che all’orizzonte molti iniziano a intravedere nubi cariche di tempesta, che sembrano preannunciare, più che il semplice naufragio dell’«utopia tecnocratica», una radicale crisi del progetto di integrazione, dalle conseguenze imprevedibili. 
Osservati oggi – dalla prospettiva forse eccessivamente pessimista suggerita dal presente che abbiamo dinanzi – le promesse di prosperità, pace e sviluppo con cui, negli anni Novanta, venivano invariabilmente associate all’«appuntamento di Maastricht» e all’«ingresso in Europa» non possono che apparire come un clamoroso abbaglio storico, forse dovuto a improvvisazione, forse a errori di valutazione, o forse ancora imputabile a una consapevole volontà di ‘depoliticizzare’ i sistemi democratici europei. Ma ciò che più conta è che da quella «trappola», in cui il Vecchio continente si è infilato negli anni Novanta, non sembra esistere alcuna via d’uscita, per l’impossibilità ‘economica’ di uscire dalla moneta unica senza pagare enormi costi sociali e per la l’impossibilità ‘politica’ di procedere verso la costruzione di un’unione federale e democratica. Qualcuno potrebbe naturalmente obiettare che, in realtà, ci sono altre opzioni, che la politica ha ancora molte carte a disposizione, e che proprio l’insieme di queste grandi difficoltà potrebbe spingere le élite europee al ‘salto’ necessario per proseguire nel percorso di integrazione. Ma dinanzi all’ottimismo esasperato che viene inalberato per convincerci che i problemi di oggi – a dispetto delle loro profondissime radici economiche e politiche – sono destinati a essere superati nell’arco di qualche mese, è difficile non ricordare il sinistro ottimismo che Antonio Salandra esibiva in quella lontana serata romana dell’estate 1915, quando il collega Nitti gli manifestava le proprie perplessità sulle dotazioni militari italiane e prevedeva che la guerra si potesse protrarre oltre l’inverno. Perché – ormai lo abbiamo capito – la ‘guerra’ che stiamo vivendo non finirà in autunno. E l’inverno che ci attende sarà probabilmente molto lungo.

Damiano Palano